“Ripensando alla primissima origine di Turandot, devo dire che essa è nata da un pranzo, nato a sua volta da una delusione. Pranzo intimo a tre, cominciato con celata amarezza e finito tra vividi bagliori di speranze.
Simoni ed io dovevamo far vedere a Puccini accoratissimo che la bocciatura d’un progetto di libretto ideato per lui non ci aveva per nulla, non dico offeso, ma nemmeno turbati. Che giudicavamo giusta la sua sentenza di condanna e perciò eravamo disposti a tornare da capo. Non sarei esatto affermando che fosse quello il nostro schietto sentimento, ma il Maestro ci parve sì deluso e dolente di esserlo, che ci proponemmo di togliergli l’incubo attraverso un simposio offertogli da noi: «Questa sera alle otto, alla Fiaschetteria».
«Va bene, ragazzi»
Con tale appuntamento si chiuse il burrascoso pomeriggio primaverile.
Qualche mese prima, Puccini incontratosi in terra di Toscana con Simoni a cui voleva bene fin da quando egli, tra i pochi coraggiosi, aveva difeso Butterfly dopo il linciaggio, gli aveva detto: «Sono senza lavoro come un disoccupato. Me ne rodo e torturo. Metto le mani sul pianoforte e mi si sporcano di polvere. Sento passare gli anni, e dei più belli… Perché, quando torni a Milano, non ti metti d’accordo con Adami per cercare insieme qualche cosa di buono per me?».
L’accordo fra noi due fu pronto e facile. Più difficile era trovare quel qualche cosa di buono che il Maestro sognava. Tuttavia ci mettemmo al lavoro e in pochi giorni si inventò un soggetto di tipo dickensiano, che, se convinceva poco noi, non convinse affatto Giacomo che sperava tanto. Egli temeva anche che dopo quel primo fallito tentativo non ci occupassimo più di aiutarlo nelle ricerche. E perciò vidi il suo viso d’un tratto illuminarsi quando a cena finita Simoni, con uno scatto ed impulsivo, proruppe: «Senti, Giacomo; un’idea. Se pensassimo a Gozzi?… Se ci abbandonassimo a un bel tema fiabesco, inconsueto, fantasioso e bizzarro?… Una grande fiaba che magari riassumesse come in una sintesi le più celebri fiabe che davan tanta noia a Goldoni?».
«E perché no?… Una volta ho persino riletto Turandot… Recentemente, in Germania l’ha musicata Busoni. Ma, credo, tale e quale come la rappresentano talvolta i teatri di prosa d’avanguardia, per offrire ai registi decadenti delle possibilità coloristiche e parodistiche».
«No…Non così, non sotto questa forma» ribatté Simoni «ma cercando di immettervi tutta quell’umanità di cui Gozzi non s’è mai preoccupato.
Da questo resoconto di Giuseppe Adami sembra che il soggetto di Turandot, proposto dallo stesso compositore durante una conversazione con Simoni a Milano, sia stato scelto quasi per caso, ma in realtà da una lettera di Puccini del 18 marzo 1920 si evince che tale progetto risalisse a poco tempo prima della primavera dello stesso anno:
“Caro Simoni, Ho letto Turandot, mi pare che non convenga staccarsi da questo soggetto. Ieri parlai con una signora straniera, la quale mi disse di questo lavoro dato in Germania con «mise en scène» di Max Reinhardt in modo molto curioso e originale. Scriverà per avere le fotografie di questa «mise en scène», e così vedremo anche noi di che cosa si tratta. Ma per mio conto consiglierei di attaccarsi a questo soggetto. Semplificarlo per il numero degli atti e lavorarlo per renderlo snello, efficace e soprattutto esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio”.
La rappresentazione di Turandot, a cui si riferisce Puccini nella lettera, era un adattamento tedesco di Karl Vollmöller con la regia di Max Reinhardt e le musiche di scena di Ferruccio Busoni, autore di una Turandot in due atti rappresentata a Zurigo nel 1917. Simoni aveva fatto avere a Puccini una copia del dramma non nella versione originale di Gozzi, ma in quella di Schiller tradotta nel 1803 da Andrea Maffei. La fitta corrispondenza tra Puccini, i suoi librettisti e Sybil Seligman consente di seguire, con cadenza quasi settimanale, la genesi dell’opera, il cui canovaccio completo fu pronto nell’autunno del 1920, e di conoscere le difficoltà incontrate che spinsero il compositore quasi ad abbandonarlo, come egli stesso confessò alla Seligman in una lettera del 20 ottobre 1921. Tra crisi e desideri di cambiare soggetto, il lavoro procedeva con la solita lentezza con lunghe pause che si alternavano a momenti in cui la fantasia di Puccini si accendeva in modo repentino; pur essendo, infatti, pronto il libretto provvisorio del secondo atto già alla fine di giugno del 1922, egli non incominciò a lavorarvi prima del mese di giugno del 1923 appassionandosi alla scena della morte di Liù composta prima ancora che fossero completati i versi. A dicembre, pur afflitto dal mal di gola e da una tosse persistente, Puccini incominciò l’orchestrazione del secondo atto che completò nel mese di febbraio del 1924 e, senza alcuna pausa, iniziò a stendere la partitura del terzo nonostante la parte librettistica del duetto d’amore non fosse ancora giunta alla redazione definitiva. Già si programmava la prima rappresentazione dell’opera che, in base ad un incontro con Toscanini il 7 settembre 1924, si sarebbe dovuta tenere nel mese di aprile del 1925. Intanto le condizioni di salute di Puccini andavano peggiorando e non sortirono alcun effetto le cure termali a Salsomaggiore prescritte dal medico curante che gli aveva diagnosticato un’infiammazione reumatica alla gola, mentre in realtà era affetto da un tumore la cui gravità fu compresa da uno specialista di Firenze, il dottor Torrigiani, il quale gli sconsigliò l’intervento chirurgico perché inutile. Il figlio Tonio, tuttavia, non si rassegnò e, avendo scoperto che il male poteva essere trattato con i raggi X utilizzati solo in due cliniche Europee, a Bruxelles e a Berlino, convinse il padre a farsi ricoverare in quella della capitale belga dove Puccini sarebbe morto il 29 novembre 1924. Turandot rimase, così, incompiuta dal momento che Puccini aveva steso la partitura fino alla scena della morte di Liù nell’atto terzo, lasciando, del finale, 36 fogli di appunti, portati con sé nella speranza di poter completare l’opera. Questi appunti furono in seguito utilizzati da Alfano per la composizione del finale, la cui versione è quella correntemente rappresentata nei teatri, e da altri compositori tra cui Janet Maguire e Luciano Berio. L’opera andò in scena per la prima volta alla Scala il 25 aprile 1926 con Rosa Raia (Turandot), Miguel Fleta (Calaf), Maria Zamboni (Liù), Carlo Walter (Timur) con la regia di Giovacchino Forzano e sotto la direzione di Toscanini che non eseguì il finale di Alfano. Eugenio Gara, presente a quella prima, descrisse così la serata:
“Il successo schietto, caldissimo al primo atto, fu meno convincente al secondo. Nel terzo all’ammirazione si frammischiarono elementi patetici, riflessi per così dire biografici. Soprattutto dopo la morte della schiava, quando, spentisi gli ultimi rintocchi («molto rallentando») dell’episodio corale – «Liù, bontà, Liù, dolcezza, dormi! Oblia! Liù, Poesia!» eccetera – Toscanini arrestò l’orchestra, si volse al pubblico e con voce velata, più rauca del solito disse: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto». Quella prima sera non furono eseguiti il successivo duetto d’amore e il breve quadro del palazzo imperiale, elaborati da Franco Alfano per incarico degli editori”.